9 agosto

Camminavo appresso il gregge, con ben oltre centocinquanta persone al seguito, attraverso un faggeto antico, che il bandito Domenico Fuoco, dal 1861 al 1870 scelse nei pressi del covo, una caverna sotterranea in territorio di Picinisco,  per celarsi da chiunque lo cercasse. Me lo fa notare l’amico Carabiniere Forestale. E’ l’albero ultra secolare che veniva usato dal fuorilegge come punto di vedetta, è lì vegeto e poderoso ad attendere un’altra figura che lo arrampichi. Chissà dove, nell’estrarre dalla tasca destra dei pantaloni il cellulare, mi caddero gli occhiali, quelli che uso per leggere. Inconsapevole continuo l’accompagnamento di queste numerose persone.

La sera mi accorgo di non poter leggere alla lieve luce della lampadina nella bajour sul comodino. Mi dò un compito per il mattino seguente, andare alla ricerca degli occhiali, ma come, dove? Memore di non avevo usato il cellulare perché in tutto il percorso mancava la rete, cerco di ricordare quando lo avevo utilizzato per verificare il tragitto sulla mappa digitale, e la quota dei punti salienti dell’escursione. In realtà avevo usato l’app sia in salita con il gregge all’arrivo a Forestale, dove un tempo le pecore venivano lavate proprio a quelle acque prima della tosatura, sia durante il passaggio dal faggeto dove alti strati di foglie coprivano il sottobosco. Ma avevo estratto il cellulare anche in un’altra occasione. Mentre scendevo a ruota libera, dalla baracca delle femmine, fuori da ogni sentiero che peraltro non conoscevo e, scollinata una piccola forcella, era apparso il segnale telefonico, me ne accorsi per il bit di un messaggio evidentemente in attesa della rete. Qui ho senza dubbio guardato il telefono e forse perso gli occhiali. Era l’unico punto dove avrei potuto ritrovarli, ma come avrei fatto in quel pascolo immenso? E così il mattino seguente sarei partito per la ricerca  proprio da quell’enorme pascolo.

10 agosto

Fatta la colazione del pastore con pane, ricotta e marmellata di pizzuttella, una prugna gialla dolcissima, in un bar di Picinisco, proseguii verso Prati di mezzo, dove avrei parcheggiato l’auto per iniziare la ricerca. Giunto nei pressi, sosto a lato della strada sotto alberi di faggio davvero alti. Indosso scarponi e zaino e, camminando lungo l’asfalto, penso al percorso del giorno prima. Cerco alcune roccette che ho arrampicato in discesa e le trovo. Salgo da quel punto entrando nell’ombra scura del bosco e lo risalgo fino a un traliccio dell’Enel che ricordo di aver incontrato precedentemente. Sono sul grande pascolo, che affronto in salita cercando qualche traccia, qualche punto da riconoscere. Infatti alcuni sassi emergenti dall’erba, alcune piante di cardo quasi del tutto sfiorite, mi ripotranno al punto di scollinamento, naturalmente percorso al contrario.

Ricordo che il giorno precedente, giunto in quel punto, avevo osservato la mia posizione rispetto alla sottostante strada, a circa 500 metri di distanza, agli stazzi a lato della strada stessa e quelli da cui la passeggiata del pastore era iniziata, molto lontano da me.

Riesco a orientarmi e inquadro il percorso fatto in discesa. Dopo pochi metri gli occhiali sono posati sull’erba. Li raccolgo.

Ore 7,30. Le pecore erano in parte uscite dagli stazzi e in parte stavano uscendo. Un gregge aveva appena iniziato la salita sassosa che porta a Forestelle, lo affianco a breve distanza, non voglio spaventarle, per poter godere della loro cadenza, lenta, tranquilla. Un cane, evidentemente un incrocio con il pastore abruzzese, con il manto grigio e bianco, mi scorge immediatamente e inizia ad abbaiare. Continuo il passo anche uscito dal bosco, un pò sopra le pecore e il cane mi segue a pochi metri di distanza, continuando ad reclamare la mia presenza. Salgo un altro po’ sul pascolo e anticipo il gregge, lo supero, passo oltre e risalgo nel versante opposto della montagna, a ovest.

Ieri alcune persone avevano avvistato, sul colle che sovrasta la fonte dove oggi non c’è che un rigolo d‘acqua, un lupo o un cane selvatico imbastardito con un lupo. Le versioni erano queste chi diceva l’una o l’altra. Sicuro l’animale era selvatico. Salgo sul pendio erboso, non per avvertire la presenza del lupo quanto per capire, comprendere i luoghi, le erbe che vengono avidamente divorate dalla pecore e dalle capre, che in questa valle sono di razza autoctona, la Grigio ciociara, la Monticellana, e la Capestrina.

I pascoli sono immensi chilometri e chilometri a vista, quasi all’infinito senza un albero. Le montagne circondano il largo tratturo ormai calpestato da secoli da animali che passano solo per cibarsi. Salgo sul colle e le greggi sono sempre presenti, le vedo in basso e in costa sulla montagna opposta al tratturo, verso est. Il sole illumina accecandomi, ma non indosso gli occhiali da sole, voglio sfruttare tutte le sfumature dei colori così come sono, le ombre e le luci anche se abbaglianti. Salgo ancora, un altro colle verso sud mi sbarra la visibilità sul monte che sta dietro, salgo anche quello, mentre le erbe, umide dalla notte, sono tanto basse che non mi bagnano gli scarponi.

Profumi intensi, l’erba bagnata ma soprattutto il timo, il timo serpillo che quasi ad ogni passo calpesto. Questa pianta che si trova facilmente vicino ai sassi che emergono dall’erba è di un’intensità olfattiva stupefacente. E poi il trifoglio nano, con qualche sparuto fiore fucsia, debole, ormai siamo avanti con la stagione, ma è li, raro. Ogni tanto l’erba del pascolo è solcata dagli zoccoli di vacche bianche, che popolano in gran numero, insieme alle greggi, quei pascoli. Piccoli tratturi consumati attraversano in senso orizzontale e ondulatorio il colle che sto salendo e che in poco tempo ne raggiungo la sommità. Dall’alto silenzioso occultato solo dal lieve ronzio di piccole mosche, che peraltro non disturbano, si dominano ancora le greggi ormai piuttosto lontane che stanno rapidamente salendo le pendici delle montagne, lasciando il fondo valle, il tratturo principale.

Da qui il panorama è splendido, lontane valli a ovest e alte montagne a est mentre a sud, a lambire il colle sul quale sono salito, una montagna alta, rocciosa, bella, sulla cui vetta, almeno presumo così, si staglia contro il cielo una croce. La distinguo solo con il teleobiettivo della macchina fotografica. E’ molto lontana. Alcune tracce di piccoli animali, forse capre o ungulati selvatici, salgono a volte dolcemente a volte rapidamente. Le seguo fino a un ghiaione che cade da una piccola forcella tra le rocce. Le erbe continuano belle, verdi, ma non più umide, il sole le ha asciugate. Incontro una mandria di manze bianche, poche, una decina e le fotografo.

Da lontano almeno 300-400 metri un cane avverte la mia presenza. Un poderoso abruzzese che mi punta, scodinzolando. Sa che non sono io il pericolo per le pecore, ma mi avverte ugualmente. Continuo a salire, non so perché, non ho nessuna meta, voglio apprezzare quella natura incontaminata senza dover decidere, lascio che sia la montagna a guidarmi. E infatti mi trovo sotto una muraglia di rocce frastagliate, spigolose e solcate da secoli di neve e pioggia, e vento. Una barriera naturale che pare invalicabile se non spostandosi di alcune centinaia di metri verso est, verso ovest no, non ci cono varchi. Poi osservo, mi oriento, rivedo la croce, e risalgo alcune decine di metri. Trovo un camino, una sorta di imbuto rovescio che con breve arrampicata mi consente di oltrepassare quello sbarramento roccioso. La roccia bianca e quel preciso camino fatto a imbuto mi ricordano il latte e comincio a pensare che forse quell’ascensione non è altro che una scorciatoia per comprendere quegli aspetti che conosco, ma che vanno sempre più approfonditi. Risalgo ancora, sento in lontananza le campane appese al collo degli animali, riconosco quelle delle greggi e quelle delle mandrie. Può sembrare inverosimile ma il dondolio di questo bellissimo strumento musicale è fortemente influenzato dal movimento ondulatorio della razza che lo porta. Non è il suono sordo o tintillante che mi fa riconoscere l’animale, ma il modo di suonata.

Oltrepassata quindi la barriera mi sposto, sempre salendo, verso ovest o meglio sud-ovest. I pascoli sono sempre bellissimi, verdi, qualche filo di erba secca emerge su quelle tappezzanti verdi, ma per gli animali ce n’è a sufficienza e anche di più. Qualche fiorellino giallo si mostra orgoglioso, lì non ci sono più i cardi. Guardo l’altimetro, sono a 1700 metri.

Le tracce e le diverse erbe mi portano in su, riconosco una cresta facilmente raggiungibile, erbosa, sulla cui sommità sono sparute rocce quasi fossero messe dall’uomo. Vi giungo. Mi si presentano due meraviglie architettoniche. Verso il basso intravedo la sommità dei due colli precedentemente saliti, sui quali massi emergenti dal pascolo formano cerchi concentrici quasi perfetti, quasi fossero terrazzamenti artificiali. Non mi so spiegare, non mi pare possano rappresentare antichi stazzi, o forse si. Lo chiederò a Damiano, l’amico antropologo con il quale ho, ieri, condotto la camminata con il pastore. Bellissimo. Sposto lo sguardo nella parte opposta e mi trovo, dall’alto a osservare una sorta di enorme cratere inerbito, davvero enorme, circondato dalla cresta che dal punto in cui sono circola in senso orario fino a crescere, a salire verso la cresta sud-est della montagna e giungere proprio alla croce precedentemente avvistata e che ora è la, sopra di me ancora molto distante.

Ma le distanze in montagna sono sempre difficili da calcolare.

Per la prima volta decido il tragitto, voglio percorrere tutta la sommità della straordinaria cresta in senso diverso da quello che ho descritto, ovvero in senso antiorario e tornare in quel punto dove ho progettato il percorso per poi ridiscendere.  Ma ancora una volta la montagna decide per me. Infatti continuo sulla cresta dove incontro un ometto, tante pietre accatastate che diventano un segnale di orientamento e poi per pochi minuti discendo sempre la cresta fino alla base della vetta che è lassù, ancora lontana. Rammento il latte. Quell’enorme cratere ha la forma di un enorme pentolone, verde, vuoto, ma il latte delle pecore e delle capre mi torna in mente in modo preponderante. Sono fermo, in realtà non so dove mi trovo, certo non mi sono perso, la montagna qui è un libro aperto la si può leggere in ogni direzione. Ma tutti quei sassi, quelle scogliere d’alta quota, quell’imbuto e ora quel catino d’alta montagna mi fanno davvero pensare. Ecco allora un’immagine mi appare quella che ho sempre avuto fissa ma mai goduta davvero in luoghi come quello. Il latte dell’alpeggio, del pascolo è il frutto di quelle montagne, di quei sassi spigolosi, di quell’enorme catino e dell’imbuto che ne svuota il contenuto. Di quei prati verdi e del calpestio delle zampe del lupo. Si, il latte straordinario del pascolo è lì anche senza le pecore e le capre, lo immagino profumato di erbe e dell’aria pura del monte. Non mi accorgo che invece di procedere seguendo la livelletta della montagna, salgo, salgo ancora. Cammino senza fatica guardo per terra le erbe, i sassi che arrampico e supero, poi alzo lo sguardo. La croce, è li, 10 metri avanti ancora.

Non so neppure che montagna sia, ma sono in vetta. Le croci sono due, una più piccola a ricordo. Sulla roccia basale della croce c’è il nome della montagna, Forcellone metri 2030. Evidentemente doveva andare così, è la prima vetta conquistata sugli Appennini e guarda caso nel Parco sui pascoli montani di Picinisco. Ho scalato, arrampicato, raggiunto tante vette sulle Dolomiti, ma mai qui, su pascoli splendenti con panorami mozzafiato di lunghissima veduta, infinita. La Valle di Comino, tutta. La catena del monte Meta che distinguo perché è li, di fronte verso nord, nord-est. E le greggi, ne conto cinque distantissime, formicai che, al rallentatore, salgono le pendici e pur da quella distanza sento oooh-oooh, del pastore che indirizza i capi sui tratturelli sempre più in alto. Suono la campana appesa alla croce, quattro cinque tocchi, bastano. Sono qui, avverto le migliaia di animali sulle montagne, sono qui, e rendo grazie alla natura e a Dio. Non parlo, non mangio, non mi siedo. Solo pochi minuti e le gambe, invece di riportarmi sul pendio della discesa, mi portano altrove, a percorrere la cresta che avevo visto dal basso. Verso sud-est. Torno sulla cresta del catino e vedo l’ometto precedentemente avvicinato a nord, piccolissimo tanta è ora la distanza. Proseguo fino a una formazione rocciosa a picco sui bassi pascoli e la campanella di un animale attira la mia attenzione. Incredibile, non le avevo avvistate così nascoste tra le rocce. Molte capre, bianche, nere e bianche, immobili, alcune ruminano altre osservano, cosa, non so. Forse sono quelle di Maria, mi dirà poi Mariarosaria. Tutte mi guardano anche con la testa e il collo piegato ma mi guardano. Impressionante, mi sento molto osservato. Siamo a 1850 metri, ma il pensiero è semplice, se sono salito io fin li immaginiamoci loro con che facilità. La cresta sotto di loro, come ho detto precipita, e il precipizio continua verso un’ulteriore cresta che conduce verso sud, seguo lo strapiombo, è alla mia sinistra, a destra il pascolo è abbastanza dolce ma sale.

Ho lasciato il catino, ora seguo picchi di rocce sempre sulla mia sinistra, un’altra barriera che seguita per alcune centinaia di metri. So, per aver riconosciuto il sito, che giù, al termine del tratturo dove ora osservo alcune persone camminare, c’è Fonte fredda, una vena d’acqua gelida che emerge da sotto un enorme masso. La vedo in lontananza. Cerco il modo di scendere, non è facile per chi non conosce, come me, quella montagna. Trovo una forcella dalla quale scende da un lato un ripidissimo prato e dall’altro un ghiaione con sassi piuttosto grandi, bianchi e grigi dagli spigoli taglienti. Osservo e scelgo il miglior percorso.

E continuo a pensare che quel pomeriggio, a Picinisco, il tema del convegno che ho progettato per Pastorizia in Festival, è il latte del pascolo e le sue caratteristiche. In effetti mi torna, anche fra quei sassi passa il latte, sassi che calpesto e attraverso fino a quando trovo un tratturello ben evidente, solcato sicuramente da bovini che ne hanno fatto un passaggio in costa che ridiscende proprio nella direzione che ho previsto e che, guarda caso conduce proprio alla Fonte fredda, dove giungo da li a poco.

Mi disseto, bevo.

Il tratturo del ritorno è ampissimo e verdissimo. Le pecore, è mezzogiorno, hanno raggiunto la massima quota al limite del verdeggiante pascolo. Scendo lentamente, e mentre riprendo una panoramica a 360° mi torna il pensiero del latte, fra le montagne, si, il suo frutto. Il frutto delle rocce frastagliate, durissime, dei sassi nei colatoi, del camino fatto a imbuto, dei pascoli che scendono ripidamente o dolcemente e delle erbe. Dei passi del lupo che osserva da lontano le pecore e dei cani che, attenti, ne impediscono l’assalto. Dello scorrere dell’acqua dalla Fonte fredda, fino alla raccolta  del latte con le braccia aperte, quelle dei pastori, che faticosamente ma con gioia, lo accolgono e lo trasformano in formaggio, quel formaggio che contiene tutta la montagna di Picinisco.

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