Lis sedonariis giungevano dal vicino Friuli, le venditrici del legno percorrevano i territori della loro regione e del Veneto per vendere cucchiai, mestoli, bastoni per la polenta e tanti altri oggetti.

Camminavano faticosamente sulle strade di montagna, con le gerle cariche o con cassette portate a spalla, per offrire i capolavori di un artigianato ormai scomparso, che venivano utilizzati nelle cucine delle case ma anche nelle trattorie, nelle locande.

Il cucchiaio di legno, di frassino o faggio o di altre essenze offerte dai boschi, dal quale il nome dialettale sedon, era l’oggetto più venduto, vuoi per il comune utilizzo vuoi per il costo piuttosto limitato. Ma quando arrivavano alla latteria, di solito turnaria, la loro merce, e di conseguenza la loro vendita, non aveva molto successo a parte qualche mestolo di dimensioni un po’ maggiorate che poteva essere utilizzato dal casaro per agitare il latte al momento dell’innesto del caglio.

Al casaro interessavano altre suppellettili del nobile materiale naturale che le sedonariis non vendevano.

Nei territori montani del bellunese era facile incontrare le Las Nardanas, donne che partivano dal vicino Erto, oggi tragicamente ricordato per il disastro del Vaiont, portando oggetti che gli uomini facevano con i legni dei loro boschi, che poi affidavano alle mogli o alle figlie per la vendita.

Le massaie bellunesi e anche i casari le accoglievano benevolmente perché conoscevano le fatiche immani di questo antico lavoro. Come dicevo, i casari avevano altre esigenze, quelle prevalentemente legate alla loro attività di trasformazione del latte in formaggio. E la prima di tutte, quella alla quale non potevano certo provvedere le Las Nardanas, era la provvista di legna per il fuoco che scoppiettante riscaldava il latte o ne cuoceva il formaggio nella caldera in rame.

Era per il far fuoco che si lavorava duramente nei boschi, raccogliendo legna prevalentemente di abete e larice, nelle zone di alta montagna, ma anche di faggio alle quote più basse dove c’erano e ci sono ancora le latifoglie.

L’abbattimento degli alberi, la successiva raccolta dei monconi dei tronchi che subivano lo spacco e il taglio nelle misure più adatte in funzione delle dimensioni del focolare erano il duro lavoro che consentiva la provvista energetica della latteria.

In Veneto, soprattutto sulle montagne, dove le latterie erano spesso di piccole dimensioni e il casaro, lavorando tutti i giorni, non aveva bisogno di due o più caldere, veniva utilizzato, e in alcune realtà montane oggi c’è ancora, il paiolo di rame che per essere spostato dal fuoco veniva appeso a una struttura girevole di legno.

Il legno utilizzato per questa struttura di estrema semplicità ma di altrettanta estrema praticità, era rigorosamente di larice, legno fibroso, forte, carico di resina ma capace di prendere il fumo del focolare per auto proteggersi, lo stesso fumo che passando per la cappa affumicava le ricotte adagiate su graticci di legno o di ferro.

Il casaro riceveva il latte alla sera e alla mattina prima dell’alba. 

I piccoli allevatori, quasi mai possedevano più di 5-6 vacche, riempivano le lattarole di alluminio, quasi sempre ammaccate e spesso prive di coperchio, e le portavano alla latteria dove il casaro di turno procedeva al filtraggio del latte tramite teli di cotone o di lino posti su tini di legno o di rame stagnato, i quali venivano poi immersi in fontane d’acqua corrente, e li rimanevano conservando perfettamente il latte, fino al momento della lavorazione  che avveniva il mattino successivo.

Il casaro tornava  in latteria prima dell’alba ad accendere il fuoco facendo attenzione a non esagerare con la fiamma, che lo accompagnava per tutto il tempo della lavorazione.

Così cominciava la sua giornata, e mentre scaldava il latte o attendeva che si trasformasse in cagliata, il casaro rivoltava i formaggi nell’attigua cantina dove, accostate ai vecchi muri di sasso erano le scalere, strutture rigorosamente in legno di abete bianco, conifera che non trasuda eccessivamente di resina e che non lascia tracce odorose o aromatiche al formaggio.

Era ed è ancora oggi la miglior scelta, quella dell’abete bianco, le cui tavole devono essere affiancate ed unite per ottenere la larghezza necessaria, solitamente senza collanti ma con spinotti dello spesso legno o di legno di acero o frassino. Nessun trattamento conservativo, ne chimico e neppure naturale può essere fatto alle tavole di abete le quali devono mantenere le loro caratteristiche originarie per accogliere le forme di formaggio ancora umide o ammuffite o asciutte.

C’era un solo strumento che il casaro doveva fare da se, lo spino.

Ho parlato spesso di questo meraviglioso ma raro strumento di legno che il casaro predilige per fare formaggi tradizionali sia in Veneto sia in altre regioni italiane.

Lo spino, un bastone di legno che porta rametti secondari, corti, sottili ma molto robusti, viene utilizzato in particolare per tagliare la cagliata ma anche per altre fasi della trasformazione, come per esempio l’agitazione del latte all’innesto del caglio, o della pasta nella fase di cottura o dell’agitazione del siero per ottenere l’affioramento della ricotta.

Il casaro, non vuole uno spino qualunque e per questo si reca personalmente, in calar di luna, nel bosco, o ai margine delle strade forestali o su gli argini dei fiumi a cercare il bastone, quello che poi porterà alla latteria e che sarà lo strumento identificativo della sua professione.

Ma non sempre riesce a trovare il pollone di biancospino, o di pero selvatico, giusto, deve provarlo per decidere se continuare a servirsi di quello o cercarne uno più adatto.

Quello non buono andrà ad alimentare il fuoco sotto la caldera.

E gli strumenti di legno esprimono rilevanza nelle tradizioni gastronomiche prevalentemente autunnali o invernali, soprattutto sulle nostre montagne dove lis sedonariis e le Las Nardanas hanno lasciato un ricordo indelebile, e dove, spesso, il formaggio fatto con lo spino viene abbinato alla polenta agitata con il bastone nel paiolo di rame, e lo spezzatino mescolato con il cucchiaio, tutti rigorosamente di legno.

Leggi l’articolo originale su Con i piedi per terra a pag. 32

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