Le malghe erano un luogo molto ambito dagli allevatori. Dedicato prevalentemente all’allevamento delle vacche e alla conseguente produzione di formaggio, burro e ricotta. La gestione era affidata al malgaro che con la propria famiglia monticava i propri animali e quelli di altri allevatori. Il malgaro si occupava del pascolo mantenendolo pulito, estirpando le erbe inutili e i piccoli alberi che potevano ridurre la superficie del pascolo stesso. La montagna era curata, risanata, accudita con responsabilità e passione dal malgaro. L’attività malghiva consentiva, all’allevatore che rimaneva in valle libero da impegni di stalla, di occuparsi delle altre mansioni agricole, come lo sfalcio dei prati, e anche un notevole risparmio di energie ed economico, limitando o annullando le spese relative all’alimentazione delle vacche. E il malgaro, che si occupava degli animali anche di altre aziende poteva contare su un guadagno proveniente dalla vendita dei prodotti, il formaggio, il burro e la ricotta.
Le malghe che sono solitamente di proprietà di amministrazioni comunali, comunità montane, o delle Regole, proprietà collettive composte dai residenti di un determinato nucleo paesano, possono essere affidate al malgaro raramente per trattativa privata, ma tramite un bando di concorso. Uno dei requisiti quasi sempre richiesto all’allevatore è quello di essere abilitato alla pratica dell’agriturismo.
E agriturismo, oggi, è sinonimo di ristorazione. Ristorazioni agricola ma sempre di ristorazione si tratta. L’agriturismo è un eccellente modo per consentire all’agricoltore di offrire ai propri clienti un pasto, uno spuntino, basato sull’utilizzo dei prodotti aziendali e anche, in diversa percentuale, non aziendali. Molte aziende agricole si sono risollevate economicamente trasformando non solo le colture ma anche l’assetto aziendale che diventa a tutti gli effetti ricettivo, spesso assumendo personale esterno alla famiglia contadina. Ho visto spesso aziende rifiorire ma anche aziende che dopo pochi anni hanno dovuto chiudere l”agriturismo”. Peccato, forse per la località, forse per capacità imprenditoriale o per altri motivi, molte aziende non sono riuscite a portare avanti il risto-agricolo
Inventare, promuovere una ristorazione agricola non è facile, soprattutto per quegli agricoltori che hanno davvero l’agricoltura nel sangue. Il ragionamento fila liscio come l’olio anche per le malghe. Non affronterò il tema legato alla fattibilità della ristorazione ma a quello generale che riguarda le mere e tradizionali funzioni delle malghe. Malghe quindi che aprono i battenti all’ospite che cerca formaggio burro o ricotta, e malghe che hanno abbandonato la trasformazione del latte per offrire pasti e cene.
E qui la riflessione.
E’ sicuramente per motivi economici l’allevatore decide di aprire ii risto-agricolo, accrescere il reddito. Ma perché abbandonare la trasformazione del latte? Probabilmente perché è impegnativa? Certo che lo è. Occuparsi delle vacche, mungerle, trasferire il latte in caseificio e trasformarlo, seguire la maturazione del formaggio, affumicare le ricotte, è senza ombra di dubbio impegnativo.
Sono riflessioni che mi auguro si pongano anche gli appassionati di malghe, di formaggio e di prodotti tipici tradizionali in generale.
La malga agrituristica quindi, dove oggi vengono monticate per lo più manze e vitelli che, lasciati liberi di circolare sui pascoli non impegnano per nulla il gestore. La ristorazione in malga è piuttosto impegnativa. Occorre il gestore che dirige e vigila, il cuoco, uno o più camerieri, magari anche il personale per le pulizie, e quindi è necessario un impegno che non si limita unicamente alle forze familiari. Ne vale la candela?
Ciò che invece desidero considerare è che le poche malghe nelle quali l’attività storica è mantenuta, il malgaro si occupa, sempre con profonda fatica, di seguire o far seguire le vacche al pascolo, della mungitura e di produrre i classici latticini.
Per esperienza personale posso assicurare che fare di una malga un luogo in cui vengono prodotti formaggio, burro e ricotta, senza neppure calcolarne preventivamente il successo, e ci si organizza come impresa famigliare, alla fine della stagione arriverà anche la soddisfazione economica.
Certo non ci si arricchisce.
A questo tipo di gestione, storica se la si vuole rapportare ai veri scopi della malga, ma anche moderna se la si vede nell’ottica di esperienza lavorativa strettamente connessa con la natura, assicurando agli animali libertà di movimento e di alimentazione, e pure nell’ottica di una vita sana anche se faticosa, le malghe dovrebbero essere indirizzate. E perché no, magari al visitatore l’offerta di un buon tagliere di formaggi, può integrare il reddito ma senza snaturare il modello di quella malga che oggi sta scomparendo. E’ vero che molti giovani si avvicinano al mondo dell’allevamento magari prediligendo luoghi di montagna, anche isolati, ma scelgono la via della trasformazione casearia? Ora non sta avvenendo questo, soprattutto a causa dell’irresponsabilità dei proprietari che, pur di affidare al miglior offerente, trascurano il mero significato delle malghe, che consiste nel corretto uso dei pascoli e delle strutture e, soprattutto della produzione tipica tradizionale che consente al visitatore, al turista all’escursionista di godere delle specialità ricavate da un latte eccellente.
Nel Paese dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali, unica specificità al mondo, si rischia che il formaggio dell’alpeggio venga meno. Mi auguro che questo non accada mai.
Condivido bell’articolo, malghe date al maggior offerente che subaffitta ad altri e Pascoli ridotti per mancanza di cura 👏