Sono molte le donne che negli ultimi anni hanno modificato il loro modo di vita, per lo più  lo hanno stravolto davvero, si sono ritirate in ambiente naturale magari ad allevare capre, vacche, pecore o altri animali di fattoria. Non è più una notizia da prima pagina quindi constatare che le donne hanno il fegato per rivoluzionare non solo la loro vita ma anche quella dei loro famigliari. Ne ho di esempi da portare alla vostra attenzione. In effetti il mio girovagare per l’Italia del formaggio mi conduce a conoscere alcune di queste situazioni, in aziende dove la donna è caparbiamente fautrice di innovazione nel campo dell’allevamento, nel campo del rispetto della natura, nel campo della biodiversità.

Proprio in questi giorni di galera forzata ho ricevuto diverse telefonate tra le quali quella di una donna, una donna che non si accontenta mai, nonostante la sua laurea che le permette di conoscere molti aspetti della trasformazione del latte in formaggio, mi dichiarava la sua (presunta aggiungo io) poca conoscenza della materia. E affermava che se si esaminasse concedendosi un voto da 0 a 10 si autoproclamerebbe a livello 5.

In effetti la modestia è spesso una delle prerogative delle “donne aziendali” o “casare aziendali”, spesso alle prime armi, perché la loro scelta di vita le porta ad operare in ambienti semplici, dove la natura non ha tante pretese se non quella di essere rispettata.

La loro caparbietà viene visibilmente espressa sui loro volti.

Un’amica che dalla città eterna si trasferisce sulla montagna dove inizia ad allevare capre vicino all’ovile del fratello, allevatore di pecore e capre, ora purtroppo deceduto sui suoi pascoli, è un piccolo esempio di ciò che e donne-pastore sanno fare. La stessa donna che per amore carica i suoi animali sul camion e si trasferisce in altra regione d’Italia dove, insieme al compagno, continua l’allevamento e la produzione di formaggi.

E poi ancora quella donna maritata e con figli ormai grandi che dalle vallate sperdute del Friuli sposta tutta la famiglia in luoghi lontani ma sempre all’insegna dell’allevamento e della trasformazione casearia.

E quella giovane ragazza poco più che ventenne che non scenderebbe dalle malghe neppure se ad obbligarla fosse un plotone di fucilieri.

Potrei continuare sapete, potrei portare alla vostra conoscenza molte altre realtà di questo tipo. Non dovete interpretare questi miei scritti come sviolinate alle donne, non è nel mio carattere, da buon critico desidero sempre essere giusto e imparziale, e lo sono anche in quanto vado a scrivere ora.

Giungere in azienda “comandata” da una donna è sempre una scoperta perché ogni imprenditrice ha le sue fissazioni, si fissazioni, perché non vi è una mezza misura in ciò che queste donne fanno. E se sono allevatrici state pur certi che lo sono non solo per passione ma per competenza, e qualora non si sentissero preparate, non disdegnerebbero una buona formazione professionale.

E chissà perché le donne delle aziende non passano mai dalla parte dell’industrializzazione ma a quella più umile della pastorizia. Umile si, ma per modo di dire, perché ad innalzare l’importanza, la bellezza di queste piccole realtà sono proprio le donne e tutti i giovani che si spaccano la schiena, senza una lamentela, tutti i giorni.

E’ bello vedere coppie di giovani affrontare la vita in grande serenità e amore per i propri animali, per il proprio territorio, per la natura e di conseguenza per loro stessi. Si perché uno degli stimoli maggiori che porta queste persone ad allevare animali è quello di avvicinarsi alla natura, quasi sempre alla montagna ma anche alle spianate orizzontali di certi territori del Paese.

Ma perché oggi scrivo queste righe? Le scrivo perché quando mi capita di ricevere notizie ombrose o agghiaccianti come quella appena letta sui giornali, mi si sprigiona una sorta di emozione che vorrei celare, ma non ci riesco. L’emozione di comprendere che questo mondo ha molto di irreale, di crudele, di strano. La morte di un pastore o di una pastorella mi colpisce e mi arrabbia.

Sapere della tragedia di Agitu, giovane etiope trasferitasi in Trentino, dal sorriso splendente che ormai era conosciuta in ogni ambiente pastorale del Paese mi addolora profondamente. Non mi importa come, quando e perché sia accaduta una tale tragedia, ci penserà la giustizia, a fare il suo corso, mi importa che donne come Agitu, di estremo esempio sia dal punto di vista professionale sia sociale sia umano, non devono essere sfiorate, ma rispettate e prese di esempio.

Un esempio che ognuno di noi dovrebbe raccogliere e farne tesoro.

Una donna che per motivi tragici ha incontro violenza e morte lasciando però forti segnali al mondo rurale, lasciando in tutti noi il desiderio del miracolo, quello di poter rappresentare sulle montagne la stessa forza di volontà di Agitu, la stessa caparbietà lo stesso coraggio, doti che auguro a chiunque desideri intraprendere questa vita, rispettosi del lavoro pastorale, della montagna e della natura.

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