Placide e ordinate sul presepe contribuiscono a rendere la nascita di Gesù un momento di grande armonia, di pace e di fratellanza. Le pecore, cosi di rado incontrate nella vita di tutti i giorni da noi in questo secolo, in passato erano una presenza quanto mai di usa, anche nella nostra campagna non solo nelle radure della Giudea. Basta sfogliare qualche censimento sugli animali da corte di un secolo fa, o valutare gli atti che venivano regolarmente richiesti ai pastori, spesso provenienti dall’Altopiano di Asiago o da Castel Tesino, che sfruttavano i pascoli di pianura per far svernare le loro greggi, per accorgersi che quel nostro mondo, infondo, non era così diverso da quello raccontato dalle sacre scritture. E tuttavia queste ultime sono di fondamentale importanza per capire la pastorizia e il rapporto che l’uomo aveva con la pecora nel suo viaggio per la sopravvivenza. “Due uomini erano nella stessa città – racconta la Bibbia –

Samuele 2,12-2 – uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero, mentre il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina, che egli aveva comprato. Essa era vissuta e cresciuta insieme con lui e con i gli, mangiando del suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno. Era per lui come una glia”. Samuele parla della povertà dell’uomo che possedeva una sola pecorella, addirittura piccina, ma la presenta come una vera ricchezza, in quanto convivente nella famiglia. Una ricchezza che dipendeva anche dal valore intrinseco dell’animale, capace non solo di apprezzare la compagnia dell’uomo ma di soddisfare molte sue necessità.
Siamo soliti pensare che gli animali allevati, le pecore ma anche capre e vacche, siano specializzati alla produzione di carne e latte. In e etti oggi è così, tanto che, se facciamo riferimento alle bovine, i generi di allevamento sono due: da carne o da latte.

Gli studi della genetica e la sua applicazione hanno fatto notevoli progressi, più o meno condivisibili, tanto che le razze sono state modificate per adattarle a una specifica funzione. Infatti gli animali da latte non hanno alcuna resa in carne e le razze da lavoro, capostipiti di molte razze moderne, non esistono più. La duplice o triplice funzione degli animali è quindi scomparsa.

Se poi si pensa alla pecora, simbolo antico che ab- bracciò insieme ai pastori, la nascita del Messia, oggi non sono note le molteplici funzioni che questo umile e povero animale possedeva. L’unico bene che viene riconosciuto all’ovino è il formaggio, il pecorino. Per fortuna è ancora prodotto in Italia questo nobile e bio-diverso formaggio, perché alla pastorizia è stato tolto molto. E così, come i pastori vagavano nelle desolate terre della Palestina, anche oggi le pecore camminano

La lana e il vello dell’agnello che si ottengono con la tosatura, quando non vengono regalati rappresentano per l’allevatore un rifiuto speciale e quindi un costo per lo smaltimento

dalla valle alla montagna o nella piatta pianura accontentandosi della poca erba che trovano sul ciglio della strada o sull’argine del canale dove, passando lascia- no pulito e concimato il suolo.

Un tempo era un animale sul quale si poteva contare davvero per la sua multifunzionalità, era un bene primario in quanto concedeva risorse importantissime. L’avvento dei tessuti sintetici ha dato il colpo di grazia alla primissima funzione della pecora, la lana. Un bene che veniva utilizzato per gli indumenti dell’uomo e del- la donna, che la lavoravano sapientemente e spesso la pigmentavano con i frutti della natura. E non costa- va nulla averla era la prima risorsa dell’animale vivo, la seconda, considerata tale, era il latte, determinante per la crescita dell’agnello e che, come la lana, non comportava alcuna fatica all’uomo se non l’atto della mungitura. Quindi dall’animale vivo le risorse erano lana, agnello e latte. Oggi è rimasto, per la pastorizia italiana solo il latte.

Dall’animale macellato, si consumava la carne, e non si buttavano neppure le ossa e le corna dalle quali si ottenevano piccoli oggetti da lavoro. Ciò che rimaneva erano le interiora, delle quali una buona parte era utilizzata come alimento. Si pensi all’abbuoto, fatto

con diversi tipi di frattaglie e cotto sulla brace. Sempre dalle interiora si sfruttava l’abomaso, il quarto stomaco dell’agnello, che contiene gli enzimi determinanti per la coagulazione del latte. Veniva salato, essiccato e triturato proprio per lo scopo caseario, oppure utilizzato per fare otri. Le restanti viscere venivano lasciate sul terreno e consumate del tutto dagli animali selvatici, i corvi, le cornacchie, le gazze, e pure i cani al seguito delle greggi. Della pecora non rimaneva nulla, proprio nulla, tutto consumato e riciclato.

Oggi all’insegna dello spreco tutto ciò è impossibile. Una delle più importanti necessità, per il benessere

Molto scarto si ha anche con il prodotto finito. La crosta del formaggio ad esempio non è edibile, pochi produttori, la dichiarano tale, e se pensiamo che per alcun for- maggi il volume della superficie esterna può raggiungere anche il 18% del volume complessivo della forma lo spreco è evidente

della pecora, è la tosatura. Il pastore deve provvedere in primavera a liberare il vello dalla lana, incaricando specialisti spesso provenienti dalla Nuova Zelanda. E la lana? La lana quando non è regalata diventa un rifiuto speciale, e quindi un ulteriore costo per lo smaltimento. Anche il vello dell’agnello, se non è richiesto è un rifiuto speciale. Un tempo veniva usato per indumenti, calzature, suppellettili per la casa.

La carne della pecora è sottoutilizzata, il suo gusto non è molto apprezzato dal consumatore che già fatica ad associarla al prodotto della tradizione abruzzese, l’arrosticino. Le carcasse delle pecore non hanno scampo sono un rifiuto da smaltire.

E non è tutto, oggi non si può consumare neppure la crosta del formaggio, nessuno, o pochi produttori, la dichiarano edibile. La crosta appagava non solo il gusto del consumatore ma anche la sua fame, visto che in alcuni casi il volume della superficie esterna può raggiungere anche il 18% del volume complessivo del formaggio, si immagini lo spreco. Dalla produzione del formaggio ne deriva il siero e la scotta che un tempo erano riciclati completamente, essendo carichi di proteine, sali minerali e pochi grassi, per l’alimentazione degli animali, le stesse pecore e i maiali. Oggi vengo- no spesso dispersi nell’ambiente e seppure si tratti di sostanze organiche le normative le considerano rfiuti speciali. È ridondante affermare che viviamo nell’era dello spreco, ma è meglio ripeterlo che tacere. Utilizzare dunque come un tempo? Si, certo, con le attuali conoscenze e cultura non dovrebbe poi essere così complicato.

Dall’antica pastorizia potremo tornare al riutilizzo, come una sorta di spirale che porta all’esaurimento di tutto ciò che consumiamo, così come l’erba ingerita dalle pecore diventa sangue e il sangue diventa latte e poi formaggio, così come la pecora che appariva povera ma era ricca. Della pastorizia quindi rimane la povertà, l’umiltà del pastore e delle sue pecore.

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