Fino a non molti anni fa l’allevamento del bestiame era fortemente condizionato dalla pratica del pascolo: di fondovalle nei mesi autunnali e in quelli della prima primavera e di media o alta quota durante l’estate. L’inverno, invece, gli animali lo trascorrevano in stalla, alimentati prevalentemente con fieno. Nella vicina regione del Friuli Venezia Giulia queste pratiche erano avvantaggiate forse dalla vicinanza dell’Adriatico, che mitigava il clima delle vallate prealpine o alpine, in quanto solo la neve obbligava le vacche a rimanere in stalla, ma spesso l’allevatore era uso lasciarle uscire all’aria fredda per una breve sgambata.

Ma la priorità dell’allevatore era quella di monticare le proprie vacche agli alpeggi, luoghi in cui il malgaro poteva gestire le mandrie di più proprietari, magari con l’aiuto di giovanissimi pastori, e contemporaneamente occuparsi dello sfalcio dei prati. Parlare sempre al passato, tuttavia, non è del tutto corretto perché anche se oggi la zootecnica di fondovalle o meglio alpina, è quasi scomparsa, la pratica della monticazione sta riprendendo, per l’impegno di molti allevatori gratificati in particolare dalla ricerca dei prodotti tipici da parte del turista.

Gli animali all’alpeggio vengono munti nella stalla del le strutture malghive e, in funzione delle esigenze alimentari del territorio se ne ricavano i prodotti caseari. Certo è che in ambiente alpino il clima era ed è di fondamentale importanza per cui i prodotti delle malghe come quelli dei caseifici di fondo valle erano studiati e trasformati proprio per le esigenze di chi li consumava. E come nella maggior parte del territorio alpino italiano, da est a ovest, il formaggio che ne derivava era fatto con il latte parzialmente scremato e il residuo grasso, prodotto dell’affioramento, diventava burro.

Oggi che il burro non è utilizzato come lo era anche solo alcuni decenni fa, molti formaggi tradizionali vengono fatti con il latte intero, anche perché così si dice, diventano più buoni. Alla monticazione friulana si deve la nascita del formaggio tipico del territorio, il Montasio oggi registrato come denominazione di origine protetta.
Ho fatto molte volte, soprattutto in alcune delle mie malghe un formaggio dalla tecnica molto simile a quella del Montasio sfruttando ogni elemento essenziale della filiera, l’alimentazione libera degli animali, con integrazione di solo fieno durante il riposo delle vacche in stalla, e poi l’affioramento del latte raffrescato dentro bacinelle di rame stagnato poste all’interno di vasche dove correva l’acqua della vicina sorgente. E poi naturalmente tutta la fase della trasformazione che inizia, se si desidera ottenere risultati di ottima qualità, dall’innesto dei fermenti naturali che si predispongono in caseificio con lo stesso latte utilizzato per fare il formaggio.

E così il formaggio friulano viene ancora prodotto in malga, magari proprio in quella che gli ha concesso la denominazione, posta sull’omonimo altopiano, parlo appunto della malga Montasio, un simbolo fra tutte le malghe italiane. I primi documenti scritti che parlano di questo formaggio sono quelli del preziario di San Daniele, attorno all’anno 1775, che esclude questo prodotto dai formaggi di autoconsumo anche per il suo prezzo, più elevato degli altri formaggi locali. Si dice che ciò dipendeva dal fatto che era il più buono o quello che poteva stagionare maggiormente. Oggi il Montasio, di indiscussa origine friulana, può essere prodotto anche in Veneto, nelle provincie di Treviso e Belluno e in parte delle provincie di Padova e Venezia, ma la sua forza imprescindibile sta nel marchio PDM, ovvero prodotto della montagna.

Il suo disciplinare di produzione è molto rigoroso soprattutto in riferimento alla quantità di acqua che il formaggio deve contenere, che ne delinea la sua tipologia e categoria iscrivendolo nei formaggi a pasta semidura o a pasta dura con il protrarsi della stagionatura. Il disciplinare infatti recita testualmente: “Al sessantesimo giorno di stagionatura il formaggio DOP «Montasio» deve presentare le seguenti caratteristi- che: umidità massima non superiore a 36,72 %…”.

Il formaggio deriva quindi dal latte munto entro 48 ore dalla trasformazione e una parte di esso, spesso quello della munta serale, viene scremato per affioramento. La tradizione dei formaggi d’alpe porta a utilizzare una tecnica particolare durante la trasformazione, quella della semicottura o cottura della cagliata che viene perpetrata una volta effettuata la rottura del coagulo presamico, ovvero ottenuto con l’immissione di caglio nel latte. La fase di riscaldamento è regolamentata da precise temperature che hanno lo scopo di eliminare, in tempi più o meno stabiliti, il contenuto di acqua dalla cagliata. Nel caso del Montasio non è solo questa l’ operazione meccanica di regolamentazione dell’umidità nella pasta caseosa, infatti, in seguito all’estrazione della cagliata, la pasta viene pressata, oggi con presse prevalentemente meccaniche o oleodinamiche, mentre un tempo semplicemente posizionando sulle forme assi di legno e pesi, che potevano essere solo grossi sassi.

Queste azioni tecnologiche vanno a influire moltissimo non solo su quell’umidità tanto importante da mantenere nel formaggio, ma anche sulle sue caratteristiche organolettiche. È doveroso ricordare che il formaggio, qualsiasi sia la sua derivazione e tipologia, è un prodotto fermentato e quindi, nel caso del Montasio le fermentazioni sono lascia-te ai microrganismi del latte crudo e dal supporto dei microrganismi inoculati come il lattoinnesto o i fermenti selezionati autoctoni. Da ciò ne derivano prevalentemente le caratteristiche organolettiche, che vanno decisamente a migliorare se il latte ha origine da animali liberi di alimentarsi con erba fresca, verde.

Il formaggio arriva al consumatore che, seppure ignaro del notevole lavoro dei casari friulani e veneti, ne assapora il gusto, l’aroma e l’unicità. E dai formaggi che scendono dalle malghe più che da quelli di pianura i sentori sensoriali sono davvero “intriganti”. Solo annusandoli questi formaggio ricordano in pieno la loro origine, il buon odore del latte naturale, delle erbe che gli animali hanno assunto all’alpeggio, una miscela di ori ed erbe che riassunta può essere considerata il profumo del pascolo, sensazioni ben percepibili di frutta secca e tanto altro che induce chi si appresta a mangiare tale eccellenza a lasciare sul tavolo le marmellate, le confetture il miele, preparati per degustare eccellenti abbinamenti, perché se il formaggio è veramente buono si accompagna da solo.

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