Nei primi mesi dell’anno la neve ha coperto abbondantemente le montagne, ma con l’arrivo dell’inoltrata primavera inizierà il disgelo e le pecore saranno pronte per i lunghi spostamenti sui tratturi. Anche le mandrie dalla Puglia si dirigeranno lentamente verso il Molise e l’Abruzzo per una monticazione orizzontale che si ripete da millenni. Ogni animale tra gli Appennini e le più alte vette d’Italia imboccherà le proprie strade, spesso le stesse coperte da uomini e animali dai tempi più ancestrali, perché ogni formaggio di malga ha i suoi posti, i suoi angoli e il suo paesaggio da raggiungere.

In questi giorni in cui la neve si assottiglia e diventa una crosta umida e traslucente è bello camminare con le ciaspole per raggiungere quei loghi che diventeranno popolati solo con l’arrivo delle mandrie. Per me queste brevi, ma intense, escursioni sulla neve anticipano quelle che farò tra qualche settimana, quando le prime erbe tenteranno di affacciarsi dal terreno e il sole proverà a riscaldare la montagna. I primi fiori che torneranno al sole saranno i bucaneve, seguiti dai colchici che con loro bel violetto trapunteranno gli spazi aperti, prima che questi diventino totalmente verdi. Gli sterpi rinsecchiti dal gelo invernale scompariranno, rimpiazzati dai nuovi e carnosi steli, ricchi di linfa, di acqua e di profumi. Un crescendo vegetativo che porterà a fioriture intense, un’abbondanza di clorofilla che gli allevatori attendevano da tempo, un’autentica ricchezza da “mettere in cascina” dopo lo sfalcio che ogni anno con puntualità si tiene dopo il 15 giugno. Ed è a questo punto della stagione che le montagne non sono più solo dei contadini e degli allevatori, perché al loro lavoro si unisce quello del malgaro: spesso un uomo “foresto”, perché viene da giù o comunque dall’altrove, e porta con se la sua leggenda di uomo rude, cipiglioso, tenace in tutti i suoi gesti, ma capace di fatiche indicibili e soprattutto di fare formaggio. Ed è al loro lavoro che si unisce il mio, di tecnico caseario e di critico dei formaggi, soprattutto per lo studio e i test di ricerca sulle produzioni a lette crudo. Una decina di anni fa, in una delle malghe in cui ho potuto lavorare, ho condotto delle osservazioni e delle verifiche sul rapporto tra paesaggio e formaggio. Per settimane ho osservato le vacche uscire al pascolo liberamente e ho annotato ogni loro scelta a cominciare dalla scelta dei prati. Le aree a disposizione non erano molte, anzi erano solo due, disposte su differenti versanti della montagna. Il primo, a ovest, per lo più boschivo, era costituito da piccole radure in mezzo agli abeti nel tratto più basso e ai larici in quello a quote più elevate. Le erbe di differenziavano molto anche perché sotto gli abeti l’erba non cresce mentre sotto i larici è sempre presente. Erbe filiformi con poche fioriture, per lo più nel mese di giugno e luglio, ma sempre lussureggianti perché l’umidità rimane più a lungo. Sul versante sud, invece, non c’era un vero e proprio pascolo, ma un prato. Un grandissimo spazio contornato dagli abeti dove l’uomo fino ad alcuni decenni fa sfalciava l’erba per farne il prezioso fieno, alimentazione invernale delle vacche. E ancora oggi questi prati sono rimasti tali, abbandonati al libero girovagare delle vacche, grazie al tacito accordo con gli innumerevoli proprietari, sono il principale pascolo della malga. E del resto, rispetto al pascolo a Ovest, qui le erbe crescono in pieno sole, diventano alte, rigogliose e stracariche di fiori, di ogni essenza e di mille colori per quasi tutto il periodo estivo. Gli animali possono godere di una grande scelta di vegetali, dei raggi del sole durante le ore fresche del mattino e dell’ombra degli abeti nelle più calde, insieme all’acqua limpida di un ruscello.

Le vacche vi rimanevano per l’intera giornata, fino a quando non le raggiungevo per accompagnarle alla stalla. Non che avessero bisogno di me per tornare indietro, avrebbero trovato la via di casa anche da sole, ma a me interessava soprattutto vedere quali erano le erbe di cui si erano cibate, quali zone del pascolo ave- vano frequentato, quali, insomma, erano state le loro scelte. Perché un animale libero può seguire anche le sue inclinazioni, i suoi bisogni e forse, i suoi desideri. Comunque le vacche non sono dei “rasa erba”, scelgono. E così sul pascolo della giornata erano rimasti i ciuffi spinosi delle erbe più coriacee, i fiori fucsia del cardo e altre essenze indigeste, mentre le zone brucate risultavano color smeraldo, basse, aree che portavano la promessa di una veloce ricrescita. Ovviamente le leguminose rientrano tra le erbe più ricercate dai palati bovini, quasi dei dessert, mentre il trifoglio o il loietto costituiscono i piatti forti della dieta giornaliera. Tuttavia, a sera, dopo aver raggiunto la stalla e iniziata la mungitura era l’intero paesaggio ad essere racchiuso nei profumi del latte. Il sole, le nubi, la pioggia, il vento e a volte la grandine, le essenze delle erbe e la frescura dell’acqua del ruscello, uscivano nuovamente per mischiarsi con l’odore intenso del manto delle vacche, del cuoio, spesso bagnato dai brevi ma intensi acquazzoni pomeridiani e agli altri profumi della malga, per fissarsi definitivamente nel formaggio che il mattino seguente avrei realizzato con il latte serale e quello della munta mattutina, dal profumo più intenso. E così mettevo all’interno della caldera tutte le essenze della giornata precedente e della notte, la trasformazione avveniva all’insegna di alcuni fattori che lasciavano il pensiero vagare tra la meraviglia di annusare la natura e l’incredulità di comprendere che una sostanza così bella e buona potesse tramutarsi in un alimento eccezionale. E tutti i giorni le fasi della trasformazione diventavano atti unici, diversi fra loro, evidentemente influenzati dalla stagione, dal sole o dalla pioggia, dal temporale o da quei due fiocchi di neve di fine agosto.

Questa è la vera bellezza del fare formaggio in malga: un giorno il caglio opera velocemente e magari il successivo lentamente, oppure la cagliata può venire ben coesa e asciutta ma anche lievemente umida. Con le tante varianti che la vita naturale rende possibili, rispetto alla stabulazione, la lavorazione va guidata, affinché il risulto finale possa risultare stabile. Anche se, questo è l’impegno che mi sono dato, nessuno di quei profumi poteva andar perso per strada. Del resto riuscire a raggruppare e conservare tutte le essenze della montagna, è la sfida più bella e complessa che il malgaro può, anzi deve, perseguire.

Leggi l’articolo originale su Con i piedi per terra a pagina 26

Condividi questo articolo: