La ricerca è lo studio di ciò di cui si ha interesse profondo, e porta in se molti aspetti, quello storico, ambientale, naturalistico, scientifico e naturalmente quello intrinseco all’oggetto della ricerca, nel mio caso il formaggio.

Ricercare per conoscere il formaggio a volte diventa una sorta di investigazione capace di entrare nel dettaglio, anche il più piccolo, che consenta di capire, appunto di conoscere.

Conoscenza sinonimo di sapienza, ovvero apprendere per capire è ciò che si tende fare per approfondire le tematiche del formaggio. La conoscenza di un formaggio non è limitata al suo assaggio ma a ogni aspetto della sua vita partendo dall’ambiente nel quale è stato prodotto. Come l’uovo si trasforma in crisalide e poi in farfalla così il formaggio è la conseguenza della trasformazione di un alimento, il migliore, ovvero l’erba. Ogni piccolo dettaglio ha quindi la sua grande importanza.

Quello di questi giorni è periodo d’alpeggio magari ancora all’inizio, soprattutto per i luoghi alti dove l’erba è appena cresciuta per diventare alimento delle lattifere, ma già capace di dare lume a chi come me va alla ricerca di prodotti tipici della tradizione.

È il caso del formaggio Agordino di malga, un formaggio che anni fa era presidio Slow food e che ora è diventato una rarità.

Non è da poco che mi  occupo di questo aspetto recandomi verso malghe dolomitiche, soprattutto in quelle dove ho svolto la mia attività, per capire cosa succede negli alpeggi e come viene trasformato il latte. Nel percorrere i sentieri che portano alle malghe, il pensiero mi riconduce sempre agli aspetti più reconditi e primitivi delle realtà d’alpeggio, ovvero a ogni piccolo dettaglio che ci si deve aspettare d’incontrare lungo il percorso, si perché la malga non è solo la stalla e la casera ma tutto ciò che circonda e che contribuisce alla filiera cortissima, così dev’essere, per giungere al formaggio.

Ed eccomi quindi, proprio ieri, a percorrere un sentiero che porta a un alpeggio dolomitico, da splendidi scenari naturali, unici. Il sentiero quasi tutto nel bosco di vecchi abeti bianchi, segue un’antica mulattiera che attraversa anche zone meno alberate, piccoli prati che proprio ora stanno sfalciando e piccole aree inerbite che fanno del luogo una zona di pascolo boschivo. Lungo il sentiero sono alla ricerca dei segni caratteristici che la monticazione concede al territorio, i sentieri battuti dalle vacche, e i loro escrementi che parrebbe vogliano dire la loro opinione, ai limitati disboscamenti di piccoli abeti, ai recinti palificati di legno o plastica con i fili elettrificati.

Banali dettagli che banali non sono, già da questi particolari si possono intravedere molti segni che indicano l’attenzione del malgaro verso la natura e verso gli animali, verso il bosco e verso il pascolo. Ascoltare quindi il lontano suono dei campanacci o il muggito delle vacche e cercare di capire la dimensione della mandria, la loro collocazione che non sempre è facile da comprendere e il loro stato di agitazione o di tranquillità.

Arrivato poi, dopo circa 1 ora, nei presso degli alpeggi più importanti, dove sta la malga, noto altri segni di grande importanza, che mi consentono di capire il metodo di lavoro del malgaro, lo stato dei pascoli, la presenza di fontane e abbeveratoio, la pulizia marginale dei boschi e delle erbe che crescono nei pressi dei recinti elettrificati. E poi l’accoglienza, dalla tenuta della strada, in questo caso asfaltata ma be rasata dalle erbe che la circoscrivono e la buona tenuta dello stallone che anticipa l’ultima salita alla malga vera e propria.

Segnali che per chi conosce sa apprezzare o disprezzare, a garanzia di ciò che poi troverà all’interno della malga, dai gestori al formaggio. Nel caso specifico tutti i segnali lasciano ben sperare al di fuori di un dettaglio, non vi sono apparenti tracce di letame nelle vicinanza dello stallone, chissà!

E la ricerca continua con le domande al gestore, in questo caso incontro una giovane ragazza, per capire le tipologie di formaggio che vengono fatte nella latteria della malga. E qui la situazione diventa abbastanza critica perché riuscire a farsi spiegare i formaggi è davvero complicato. La preparazione è sempre, e qui lo si percepisce, molto scarsa, oppure si ha poca voglia di entrare nel dettaglio, perché non è facile per il malgaro accettare un vero interrogatorio.

Infatti mai mi espongo troppo e nemmeno mi presento, mi comporto da vero consumatore, magari un po curioso. Della qualità del formaggio fa parte anche l’aspetto culturale che se non ben evidenziato da chi ha la possibilità d’incontrare direttamente il consumatore, rischia di sminuire il reale valore del formaggio.

Acquisto il formaggio e come solito faccio una prima analisi visiva fuori alla malga, sul tavolo di legno e in piena luce. Non faccio altro, non lo annuso e non l’assaggio, lo guardo solo. Capire del formaggio a prima vista non è sempre facile e non è mai esaustivo, serve altro, e quest’altro lo farò poi in tranquillità seduto al tavolo senza distrazioni, come ad esempio l’incredibile panorama che si gode dalla malga. Un formaggio che dovrebbe avere due tre settimane, non è stata molto chiara la ragazza che mie l’ha venduto, che dovrebbe appartenere alla tipologia dell’agordino che però viene denominato con il nome della malga. L’aspetto visivo è interessante, mostra la tipicità di formaggi d’alpeggio anche se il colore della pasta non ha ancora subito pigmentazione determinata dai caroteni. Al tatto la pasta è piuttosto morbida, il contenuto d’acqua è abbastanza elevato per un formaggio che dovrebbe percorrere, con la sua maturazione, i tre mesi caldi dell’estate. E con queste considerazioni termina l’esame brevissimo del formaggio.

Un segnale interessante del lavoro in malga è anche la capacità del casaro di trasformare il siero in buona ricotta e spesso disdegno che, come nel caso che sto descrivendo, venga aggiunto latte.

Capire bene il perché molti casari aggiungono latte al siero è motivo di ricerca, i perché sono molti e non li affronto ora, ma utilizzare latte d’alpeggio per la ricotta ritengo sia davvero uno spreco mai ripagato.

Non sono riuscito a comprendere se il formaggio che ho acquistato sia a latte intero o scremato della panna della munta serale con la quale il casaro produce burro, ma il burro che ho intravisto mentre la giovane lo confezionava era di un colore avorio più che il giallo caratteristico del grasso scremato da latte d’alpeggio. Quindi, non essendo un indovino, mi rimane il dubbio sulla tipologia del grasso presente nel formaggio.

Un’analisi che ho brevemente descritto ma che in realtà ho poi approfondito con l’assaggio per determinare l’odore, l’aroma e il sapore, dai quali ho ben compreso che si trattava di formaggio davvero prodotto la, sul luogo con il latte d’alpeggio.

Non voglio entrare nel particolare della tipicità del formaggio perché questa è un’altra analisi che sto sviluppando per una ricerca che non termina mai.

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